Restare o andare via?

Non si placano le polemiche sul “flop” di Venosa che aspirava a diventare: «Il Borgo dei Borghi». La delusione nel paese è palpabile.
Ma veramente Venosa meritava il gradino più alto? Con le sue strade piene di buche. Con i muri imbrattati da insignificanti graffiti. Con un centro storico a traffico illimitato. Con le sue piazze invase da auto. Con le sue belle manifestazioni estive domenicali: “bici in città”. E il resto dei giorni con il “bonus carburanti”. Con i suoi monumenti chiusi, o a gestione quasi padronale. Con le Catacombe chiuse. Con i suoi vicoletti interni pieni di escrementi di cani. Cacche che hanno un padrone. Pensate che un cane di taglia media produce al mese circa 18 chilogrammi di escrementi. Raccogliere le feci del proprio cane, oltre ad essere una questione di civiltà (in mancanza della quale è prevista una sanzione amministrativa) è necessario perché può avere delle conseguenze sulla nostra salute, nonché su quella di altri animali. Infatti essiccandosi e con il passare del tempo, le feci si disintegrano e diventano polvere, che noi ed i nostri figli respiriamo passeggiando per le strade. Dopo la scomparsa dei “cani di quartiere”, che guidavano i turisti per le vie della città, il randagismo pare essere dissolto! Con le sue transenne a indicare che c’è un divieto di accesso. Perché, dovete sapere, nel nostro bel paese i segnali sono indicativi e discrezionali: in caso di pioggia o capriccio si anche può circolare liberamente. Con “nessuna” manifestazione di interesse storico-culturale, cadenzata e durevole. Con le sue mille associazioni culturali, sportive e ricreative inventate all’uopo. Con la sua attorcigliata politica, intenta a continue e logoranti verifiche e scambi di poltrone. «Prima le poltrone e poi i bambini». Cosa dire di più?
Un paese che negli ultimi anni ha visto i suoi giovani, circa duemila, emigrare o scegliere altre residenze. Che ci meritavamo di vincere? L’ottavo posto? a me sta bene! Alla prossima, quando noi cittadini dimostreremo, con la nostra partecipazione, la crescita di una città attenta, condivisa e solidale.
Qui sotto propongo uno stralcio dello scritto di Francesco Sernia: «E mai mi pentirò di un tale padre!» che racconta la vita del nostro notissimo concittadino Q. Orazio Flacco. Anche io mai mi pentirò di avere tre figlie lontane dalla nostra cara e amata terra.

E mai mi pentirò di un tale padre!

di Francesco Sernia

Quel provinciale piccolo di statura, con gli occhi cisposi. basso e tarchiato, che i patrizi erano soliti apostrofare con l’epiteto Figlio della fortuna, in realtà si chiamava Quinto Orazio FIacco e lo si incontrava spesso per le strade di Roma al fianco di Mecenate.

Nei pensieri c’era Roma. Bisognava prenderla la decisione di chiudere col vecchio borgo natio e dischiudere al piccolo Orazio le porte della capitale del mondo. E quale attività avrebbe mai intrapreso, una volta fattosi uomo, suo figlio? Avrebbe continuato il suo lavoro, l’esattore delle tasse che – né più né meno come oggi avviene – non è propriamente un mestiere apprezzato da coloro che le gabelle devono pagare? FIacco non voleva, desiderare un futuro migliore per suo figlio, il primo e l’unico nonostante il prenome Quinto. Un domani che nei suoi desideri doveva svolgersi lontano dal paese nel quale era considerato un semplice liberto e nemmeno di quelli che, utilizzando in maniera spregiudicata qualche piccolo lascito del “patrono”, avevano ammassato cospicue ricchezze, con le quali far valere il proprio diritto ad un censo superiore. Così un giorno decise: Orazio non aveva che dieci anni, forse meno. Caricò di masserizie alcuni carri, sprangò la casa di Venosa e partì, insieme al figlio, alla volta di Roma. L’aspettava una vita completamente diversa da quella trascorsa a Venosa. Roma era il più importante centro del mondo, ricco di fascino ma anche di grandi tentazioni, una città non certo tranquilla per il piccolo che lì doveva trascorrere la sua adolescenza. Una decisione coraggiosa, ma l’ingegno del suo ragazzino meritava. Non che volesse farne un poeta, desiderava però che ricevesse un’istruzione di alto livello e che contraesse amicizie giuste e utili per il suo futuro.

E gli raccontò di quel nobile genitore nato schiavo. Gli favoleggiò di quella terra leggendaria le cui zolle calpestava da bambino, sfuggendo alla nutrice; né tacque di quella larga striscia dorata, che una mitica montagna, dalle sette cuspidi bianche, con perentoria risolutezza interrompeva. Quella terra che non avrebbe mai più rivisto. Ma l’aveva davanti a sé. Insieme al padre.

barconevenusia